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Ritratto di Ettore Bernabei: un protagonista del suo tempo

13 Giu
13 Giugno 2021

Da La Freccia di giugno

Napoleone, mito e leggenda

04 Giu
4 Giugno 2021

Di Alberto Brandani, su La Freccia

La notizia della morte di Napoleone Bonaparte fu pubblicata sulla Gazzetta di Milano il 16 luglio 1821. Alessandro Manzoni l’apprese l’indomani e, in tre soli giorni, compose l’inno che, ancora manoscritto, si diffuse rapidamente per divenire presto celeberrimo. Manzoni nutriva sentimenti antinapoleonici, ma di fronte all’evento subì il fascino del genio. «Che volete?», diceva allo storico Cesare Cantù, «era un uomo che bisognava ammirare senza poterlo amare; il miglior tattico, il più infaticabile conquistatore, con la maggiore qualità dell’uomo politico, il sapere aspettare ed il saper operare. La sua morte mi scosse come se al mondo venisse a mancare qualche elemento essenziale; fui preso da smania di parlarne, e dovetti buttar giù quest’ode, l’unica che si può dire improvvisassi in men di tre giorni». (C. Cantù, Alessandro Manzoni. Reminiscenze, Milano, Treves, I, pag. 113). «Ei fu», due parole di straordinaria efficacia. «Ei» perché è lui l’uomo di cui tutto il mondo parla e «fu», non perché è morto, ma perché è entrato nell’Olimpo degli immortali.

«Dall’Alpi alle Piramidi,

dal Manzanarre al Reno,

di quel securo il fulmine

tenea dietro al baleno;

scoppiò da Scilla al Tanai,

dall’uno all’altro mar.

Fu vera gloria?

Ai posteri l’ardua sentenza».

Francesco De Sanctis scrisse che rappresentare le grandi vittorie in altro modo sarebbe stato impossibile. Manzoni ci fa capire non solo che Napoleone provò tutto, ma anche che due interi secoli guardarono a lui come l’homo faber che poteva guidarli e comandarli.

«Tutto ei provò: la gloria

maggior dopo il periglio,

la fuga e la vittoria,

la reggia e il tristo esiglio:

due volte nella polvere,

due volte sull’altar.

Ei si nomò: due secoli,

l’un contro l’altro armato,

sommessi a lui si volsero,

come aspettando il fato;

ei fe’ silenzio, ed arbitro

s’assise in mezzo a lor».

«E sparve». Siamo qui a una meravigliosa riflessione sull’effetto lirico e sulla malinconia che subentra nei grandi condottieri quando la parabola si fa discendente e vengono fuori le cose peggiori degli uomini («l’immensa invidia» e «l’inestinguibil odio») e «il cumulo delle memorie» scese a frenare la «stanca man».

«E ripensò le mobili

tende, e i percossi valli,

e il lampo de’ manipoli,

e l’onda dei cavalli,

e il concitato imperio,

e il celere ubbidir».

Certo, l’emozione religiosa di Manzoni ci dice che la Provvidenza e il Dio che affanna e consola, alla fine, gli sono stati vicini.

A distanza di 200 anni Il cinque maggio, scritta da Manzoni e tradotta in tedesco da Johann Wolfgang von Goethe, ci aiuta a ricordare come le più grandi menti del tempo, ancorché distanti fra loro, abbiano provato un’emozione profonda.

Napoleone è il monumento vivente alle qualità dell’uomo che lui tutte racchiude. Condottiero ineguagliabile, stratega supremo, uomo coltissimo, porta sempre al seguito nei campi di battaglia una biblioteca di 600 volumi divisa in comparti. Saccheggia di capolavori l’Italia pittorica per fare del Louvre il più grande museo del mondo. Ma, mentore universale, valorizza anche l’Accademia di Brera. Con lui la parola e la comunicazione diventano di una modernità sconvolgente. A tutte le classi sociali, dalle più povere a quelle della borghesia, manda un messaggio inequivocabile: se sono diventato imperatore io, di umili origini, lo potete diventare anche voi, anzi voi lo siete già con me, in una sorta di millenaria reincarnazione. Si comprenderà come i balletti e i belletti delle corti europee, con le loro enormi spese, il dispregio del merito e l’arroganza di smisurate ricchezze parassitarie, non potevano competere con il generale dagli occhi d’aquila che veniva dalla Corsica. L’Europa popolare e quella colta riconoscevano entrambe in Napoleone il valore della competenza nella sua più assoluta esplicitazione.

E se è vero che dovremo prima o poi recuperare lo studio autentico della storia nelle nostre scuole, di Napoleone c’è davvero bisogno. Per i contemporanei di allora, per gli uomini di oggi, per gli studiosi e i giovani di domani, l’aquila napoleonica vola sempre alta nei cieli, lontana, irraggiungibile. Ma le sue opere, le sue intuizioni faranno sempre parte del patrimonio dell’umanità. E anche Manzoni, con Il cinque maggio, volle sentirsi indiscutibilmente coinvolto in questo sentimento universale.

Il Prof. Alberto Brandani presenta: “Italiana” di Giuseppe Catozzella

05 Mag
5 Maggio 2021

Pubblicato su “La Freccia”, maggio 2021

Testimonianze e leggende in terra di Calabria, raccolte attraverso accurate ricerche, consultazione di lettere, fonti storiche ufficiali. Giuseppe Catozzella ci accompagna nella vita di Maria Oliviero, vissuta in quel periodo dell’800 in cui l’Italia si preparava a grandi sconvolgimenti. C’era ancora il Regno delle due Sicilie, con i Borboni al comando, lo Stato Pontificio a Roma. Tanti piccoli Stati chiusi in loro stessi.
Maria nasce poverissima in una famiglia di braccianti sfruttati dai Borboni. È una bambina vivace e intelligente che, «anche in un rigido inverno, ha nel cuore un’invincibile estate». Divora libri di nascosto, vaga nei boschi della Sila, dove fin da ragazzina, attraverso un fluido ragionamento, riesce a crearsi una sua coscienza, un’etica morale, una filosofia di vita. La sorella maggiore, Teresa, la odia ferocemente e distruggerà qualsiasi suo progetto, fino alla fine. S’innamorerà del giovane Pietro, bello e rivoluzionario, condividerà con lui i suoi sogni di libertà: «Volevamo un’Italia unita per davvero. Un’Italia che doveva trovare la sua unità, nell’uguaglianza dei braccianti e del popolo, da nord a sud, e non in una guerra infame che ha trattato la parte conquistata come Cristoforo Colombo ha trattato gli indiani. Volevamo scegliere di essere italiani». Maria vivrà l’entusiasmo delle folle alla proclamazione del Regno d’Italia, proverà gioia pura alle accese parole di Giuseppe Garibaldi, ma anche una profonda delusione per quelle promesse mancate che faranno precipitare il Meridione in un abisso più profondo di prima. Sarà perseguitata e fuggirà nei suoi boschi con una banda di briganti rivoluzionari, di cui sarà il capo indiscusso. Diventerà la leggenda Ciccilla, impavida e feroce, senza mai perdere la sua dignità di rivoluzionaria e di donna. «Sono Maria Oliviero, fu Biaggio di anni 22, nata e domiciliata a Casole, Cosenza, senza prole di Pietro Monaco. Tessitrice, cattolica, illetterata». Si presenta così quando nel 1864 viene catturata sui monti della Sila.
Soffriremo e gioiremo anche noi, sentiremo l’aria fresca dei boschi calabresi e il brivido della libertà. Maria e Ciccilla sono una sola donna con due facce. Maria sogna e ama, Ciccilla sa uccidere senza pietà. Proprio come il suo popolo che ambiva l’uguaglianza e lottava per conquistarla, ma che poi, ferito, si ripiegava su se stesso. La voce chiara di Maria ci conduce con schiettezza e con amore, con ferocia e determinazione, in un lungo illuminante viaggio negli ideali di libertà, dignità e giustizia. In fondo Ciccilla voleva solo sentirsi italiana. Ogni riga di questo romanzo è impregnata di sentimenti veri e crudi: la gioia e la delusione, la giustizia e i soprusi si fondono continuamente in un vortice che fatica a trovare un equilibrio. Ciccilla e il popolo a cui appartiene chiedono uguaglianza e unità, ma spesso il mimino comun denominatore di molti sedicenti sostenitori dell’Italia unita è rappresentato dall’opportunismo e dall’invidia. Si percepisce l’attrito tra ciò che Ciccilla e la sua banda vorrebbero e ciò che è veramente la realtà. Il lettore ha paura che anche i più impavidi possano abbandonare i loro valori, che non ci potrà mai essere un vero cambiamento, perché il marcio è radicato nel profondo dell’essere umano. Ma fortunatamente la primavera arriva sempre, nonostante tutto.

Un assaggio di lettura


Lo Scaffale della Freccia

Lo Scaffale dei ragazzi

Il Prof. Alberto Brandani presenta: “Il libro dei desideri” di Sue Monk Kidd

08 Gen
8 Gennaio 2021

Pubblicato su “La Freccia”, gennaio 2021

Non era facile scegliere un libro per iniziare il 2021, una storia che ci facesse sognare, volare, struggere e dimenticare, almeno per un po’, l’incubo in cui ci ha gettato l’anno che si è appena concluso. È Il libro dei desideri di Sue Monk Kidd che, dopo il superlativo L’invenzione delle ali, qui supera ogni aspettativa. Basato su una ricerca meticolosa di usi e costumi del I secolo d.C. in Galilea, ci presenta Ana, un’adolescente con la voglia di leggere gli antichi testi come solo gli uomini potevano fare e di conoscere altre lingue, in un periodo in cui le donne erano destinate per legge a servire gli uomini e a fare solo da mogli e da madri. Quando sembra che il suo destino segua i canoni consueti, incontra Gesù, appena diciottenne. Attratta subito dal giovane, col tempo s’innamorerà anche della sua mente vivida e aperta, intrisa di un’enorme bontà e di comprensione verso gli altri, e del suo grande rispetto per le donne. Un uomo con un’apertura straordinaria verso il mondo, quasi anacronistica, con dei dubbi e dei difetti, ma con una carica umana tale da arrivare dritto al cuore delle persone.
Compito del romanziere non è solo presentare un riflesso del mondo, ma immaginarne uno possibile. Il libro dei desideri immagina che Gesù, scapolo e casto, a un certo punto prenda moglie. «Sono profondamente e rispettosamente consapevole che Gesù è una figura alla quale milioni di persone sono devote», riflette l’autrice a margine del romanzo, «e che il suo impatto sulla storia della civiltà occidentale non ha eguali e coinvolge cristiani e non cristiani». Ma attenzione a non cadere nel tranello: Gesù è solo uno dei meravigliosi personaggi di questo romanzo. Sia le figure storiche che quelle di fantasia affascineranno il lettore dall’inizio alla fine.
Sue Monk Kidd ha un approccio audace alla storia e punta sempre il suo faro sul percorso di riscatto di Ana, in nome del quale non cesserà mai di inseguire le sue passioni e di far sentire la sua voce. Si farà spazio e lotterà per tutta la vita contro le gravi ingiustizie subite dalle donne e, anche se sposerà l’uomo che ama, dovrà pagare un prezzo altissimo solo per averlo scelto liberamente ed essersi innamorata, non certamente a caso, di uno dei “rivoluzionari” più determinati e altruisti di quei tempi oscuri e violenti.
Alla fine, leggendo la parte più struggente della storia (e magari versando qualche lacrima, so che lo farete) sarà chiaro che questo romanzo è davvero un miracolo. Sono ormai passati 30 anni dalla morte di Gesù e Ana è divenuta il capo della comunità dei Terapeuti, filosofi e religiosi dediti alla meditazione e alla cultura. Yalta, la zia, le domanda se ricorda quando da piccola aveva seppellito i suoi rotoli nella grotta per evitare che i genitori li bruciassero. «Ebbene», le dice Yalta, «devi farlo di nuovo. Voglio che tu scriva una copia di ciascuno dei tuoi codici e li seppellisca sulla collina, vicino alle scogliere, in quattro grandi orci». Ana fa resistenza, pensando che il suo scrittoio privato sia al sicuro, ma la voce affilata della zia le ricorda che verrà un giorno in cui gli uomini vorranno mettere a tacere le cose che ha scritto.
«Le avevo ripercorse nella mia mente: storie di matriarche; lo stupro e la menomazione di Tabita; gli orrori inflitti alle donne dagli uomini; le crudeltà di Antipa; il coraggio di Phasaelis; il mio matrimonio con Gesù; la morte di Susanna; l’esilio di Yalta; la schiavitù di Diodora; il potere di Sophia; la storia di Iside; il Tuono, mente perfetta, e una pletora di altre idee sulle donne che sovvertivano le credenze tradizionali. E questa era solo una parte».
Ana assolve agli ultimi desiderata della zia, seppellisce i codici e canta: «Sono Ana, sono stata la moglie di Gesù di Nazaret. Sono una voce». La voce di un mondo di donne coraggiose, che la cultura aiuta a non tacere.

Un assaggio di lettura

Lo Scaffale della Freccia

Il Prof. Alberto Brandani presenta: “Il silenzio delle ragazze”, di Pat Barker

08 Mag
8 Maggio 2020

Pubblicato su “La Freccia”, maggio 2020

Quando Limesso, piccola città alleata di Troia, viene distrutta dai greci, Briseide, figlia di un re, viene catturata come tutte le altre donne e consegnata come un trofeo al grande Achille. A 19 anni diventa schiava, concubina, infermiera, pronta a soddisfare ogni desiderio del suo padrone. È lei il premio di guerra di Achille il Pelide, proprio colui che ha letteralmente “macellato” tutta la sua famiglia.
L’epica guerra di Troia è sempre una magnifica storia da leggere, una storia che parla di eroi, semidei, sconfitti, malvagità. E di donne, schiave e regine. Qui, dove tutto comincia con una donna e per una donna, le donne sembrano mute, asservite. «Alle donne si addice il silenzio», si legge nel romanzo di Pat Barker, che si è posta l’obiettivo di raccontarci la guerra di Troia con gli occhi delle schiave.
L’impianto è teatrale, quasi si colgono le quinte di scena che di momento in momento legano la storia. È un manifesto femminista, crudo e violento, una perfetta sceneggiatura per un film di Quentin Tarantino, trucido e splatter, con ossa, budella e topi morti a iosa che vanno avanti per pagine e pagine. Sappiamo bene che le descrizioni di guerra sono tremende anche nei grandi classici, ma pure che le frasi più celebri della letteratura si costruiscono per sottrazione. «La sventurata rispose» di manzoniana memoria non è forse quel che resta dopo che Manzoni ebbe sottratto pagine e pagine? Attraverso il racconto disincantato e verace di Briseide, entriamo nell’accampamento greco dove si aggirano Agamennone, Patroclo e Ulisse. I loro sentimenti, le loro turbe, le passioni. E ci sembrano meno dèi e più semplicemente uomini. Pat Barker ha cercato di dare voce a quei soggetti della storia che mai ne hanno avuta: le donne mute della terribile guerra di Troia, capaci di guardare ogni cosa con altri occhi e altro cuore.
Eppure, riflettendo attentamente, cogliamo che con il tempo ogni confine nell’accampamento acheo è destinato a sfumarsi, ogni separazione sembra sfaldarsi fra chi condivide la stessa condizione umana. La posizione dei guerrieri achei è ben diversa da quella delle schiave troiane, ma alla fine il destino di tutti, uomini e donne, vincitori e sconfitti, è subordinato alla stessa logica violenta e disperata della guerra. È in questo contesto che può nascere e materializzarsi un sentimento affettuoso verso il proprio rapitore o un gesto ospitale verso il più acerrimo nemico. Ed è qui che, al di là delle intenzioni dell’autrice, svettano i tre protagonisti di un romanzo che colpisce al cuore. Di Briseide abbiamo già detto, ma non possiamo dimenticare il grande amore che suscita Patroclo in lei e presso Achille: un bimbo strappato alla sua famiglia per un tragico gioco finito male. E che dire della splendida malinconia di Achille, abbandonato a sette anni dalla madre, che si immerge possente nel mare nella speranza di carpirne qualche frase? Nell’animo dei tre protagonisti, in particolare di Achille e Patroclo, scende un pianto disperato che viene recuperato come visione onirica della vita e balsamo lenitivo delle angosce, delle paure e malinconie di noi comuni mortali. Sono pagine e sensazioni che, per dirla in gergo teatrale, “valgono il biglietto”.

Un assaggio di lettura

Lo scaffale della Freccia

La Freccia Magazine nella Giornata Mondiale del Libro

24 Apr
24 Aprile 2020

Un assaggio di lettura da “La Freccia” di febbraio ’20: brani tratti da “Cambiare l’acqua ai fiori”

06 Feb
6 Febbraio 2020

BRANI TRATTI DA CAMBIARE L’ACQUA AI FIORI

I miei vicini non temono niente. Non hanno preoccupazioni, non si innamorano, non si mangiano le unghie, non credono al caso, non fanno promesse né rumore, non hanno l’assistenza sanitaria, non piangono, non cercano le chiavi né gli occhiali né il telecomando né i figli né la felicità.
Non leggono, non pagano tasse, non fanno diete, non hanno preferenze, non cambiano idea, non si rifanno il letto, non fumano, non stilano liste, non contano fino a dieci prima di parlare, non si fanno sostituire.
Non sono leccaculo né ambiziosi, rancorosi, carini, meschini, generosi, gelosi, trascurati, puliti, sublimi, divertenti, drogati, spilorci, sorridenti, furbi, violenti, innamorati, brontoloni, ipocriti, dolci, duri, molli, cattivi, bugiardi, ladri, giocatori d’azzardo, coraggiosi, fannulloni, credenti, viziosi, ottimisti. I miei vicini sono morti.
L’unica differenza che c’è fra loro è il legno della bara: quercia, pino o mogano. […]
I primi mesi della nostra convivenza a Charleville-Mezières ho scritto all’interno di ogni giorno “AMORE FOLLE” a pennarello rosso. Questo fino al 31 dicembre 1985. La mia ombra era sempre in quella di Philippe Toussaint, tranne quando andavo al lavoro. Mi risucchiava, mi beveva, mi avviluppava. Era di una sensualità pazzesca. Mi si squagliava in bocca come caramello, come zucchero filato. Ero perennemente in festa. Se ripenso a quel periodo mi vedo come al luna park.
Sapeva sempre dove mettere le mani, la bocca, i baci. Non si smarriva mai. Aveva una carta stradale del mio corpo, itinerari che conosceva a memoria e di cui io ignoravo addirittura l’esistenza. […]
Vivevamo l’una nelle vampate dell’altro. Diceva sempre: «[…] non avevo mai provato niente di simile! Sei una strega, sono sicuro che sei una strega!». Credo che mi facesse le corna già dal primo anno. Credo che mi abbia sempre tradito e mentito, che appena voltavo le spalle si fiondasse su qualcun’altra.
Philippe Toussaint era come quei cigni che sono maestosi in acqua e traballano quando camminano sulla terra. Trasformava il nostro letto nel paradiso, era aggraziato e sensuale in amore, ma appena si alzava, appena si metteva in verticale abbandonando l’orizzontalità del nostro amore, perdeva parecchi punti. Era incapace di qualsiasi conversazione, gli interessavano solo la motocicletta e i videogiochi. Non voleva più che facessi la barista al Tibourin, era troppo geloso degli uomini che mi avvicinavano. Sono stata costretta a dare le dimissioni subito dopo essermi messa con lui. Avevo trovato lavoro come cameriera in una trattoria, attaccavo alle dieci, quando si cominciava a preparare per il pranzo, e staccavo alle sei del pomeriggio.
La mattina, quando uscivo di casa, Philippe Toussaint dormiva ancora. Mi costava tantissimo lasciare il nostro confortevole nido e affrontare il freddo della strada. Diceva che durante il giorno andava in giro con la moto. La sera, tornando, lo trovavo sbracato davanti alla televisione. Aprivo la porta e mi stendevo su di lui, come se dopo il lavoro mi tuffassi in un’immensa piscina calda imbevuta di sole. Desideravo del blu nella mia vita? Eccomi servita.
Avrei fatto qualunque cosa perché mi toccasse. Solo questo, toccarmi. Avevo la sensazione di appartenergli corpo e anima, e mi piaceva un sacco appartenergli corpo e anima. All’epoca avevo diciassette anni e, nella mia testa, molta felicità da recuperare. Se mi avesse lasciato non credo che il mio corpo avrebbe retto allo shock di un’altra separazione, dopo quella da mia madre. […]
Niente “Cara Violette” o “Signora”, la lettera di Julien Seul cominciava senza formule di cortesia. […] Sono arrivato a Brancion-en-Chalon alle due del mattino. Ho parcheggiato davanti al cancello chiuso del cimitero e mi sono addormentato. Ho fatto brutti sogni, ho avuto freddo, ho acceso il motore per riscaldarmi e mi sono riaddormentato. Verso le sette ho riaperto gli occhi e ho visto la luce dentro casa sua. Sono venuto a bussarle. Non mi aspettavo affatto di trovare una come lei. Bussando alla porta del guardiano del cimitero uno si aspetta di trovarsi davanti un vecchio panciuto e rubicondo. Lo so, sono cliché stupidi, ma certo non mi attendevo lei né i suoi occhi acuti, spaventati, dolci e diffidenti. Lei mi ha fatto entrare e mi ha offerto un caffè. C’era una bella atmosfera a casa sua, un buon odore, e anche lei aveva un buon odore. Aveva addosso una vestaglia grigia da vecchia, eppure emanava qualcosa che sapeva di giovinezza, non so come dire, una certa energia, qualcosa che il tempo non aveva sciupato. Sembrava che quella vestaglia fosse una maschera, ecco, come una bambina che avesse preso in prestito il vestito di un’adulta. Aveva i capelli raccolti in uno chignon. Non so se fosse colpa dello shock che avevo avuto dal notaio, della guidata notturna o della stanchezza che mi confondeva la vista, ma l’ho trovata incredibilmente irreale, un po’ come un fantasma, un’apparizione. Vedendo lei ho sentito per la prima volta che mia madre stava condividendo con me la sua strana vita parallela, che mi aveva portato là dove veramente era. Poi ha tirato fuori i registri delle sepolture, e in quel momento ho capito che era una persona singolare, che esistono donne che non somigliano a nessun’altra. Lei era qualcuno, non la copia di qualcuno. Mentre si preparava sono tornato in macchina, ho acceso il motore e chiuso gli occhi, ma non sono riuscito a dormire, continuavo a vederla dietro quella porta, ha continuato ad aprirmela per un’ora, come uno spezzone di film che riguardavo a ciclo continuo per riascoltare la musica della scena che avevo appena vissuto. Quando l’ho vista aspettarmi dietro il cancello col lungo cappotto blu scuro sono sceso dalla macchina pensando: “Devo scoprire da dove viene e che ci fa qui”. Poi mi ha condotto alla tomba di Gabriel Prudent. Camminava eretta, aveva un bel profilo, e a ogni suo passo intuivo del rosso sotto il cappotto, come se nascondesse un segreto, e di nuovo ho pensato: “Devo scoprire da dove viene e che ci fa qui”. Avrei dovuto essere triste in quella gelida mattina d’ottobre nel suo lugubre cimitero, invece mi sentivo esattamente il contrario. Davanti alla tomba di Gabriel Prudent mi sono sentito come uno che nel giorno del matrimonio si innamora di un’invitata […].
È la prima lettera d’amore che ricevo in vita mia. Strana, ma pur sempre una lettera d’amore. Per ricordare la madre ha scritto poche parole, quattro frasi per tirare fuori le quali sembra aver sudato sette camicie, mentre a me ha mandato intere pagine. È decisamente più facile vuotare il sacco con un perfetto sconosciuto che non in una riunione di famiglia. Guardo la busta chiusa con l’indirizzo di Philippe Toussaint dentro. La infilo tra le pagine di un numero di Roses Magazine. Non so ancora che ne farò, se la lascerò chiusa nella rivista, la butterò o la aprirò. Philippe Toussaint vive a cento chilometri dal cimitero, non ci posso credere, lo credevo all’estero, all’altro capo del mondo. Un mondo che da un pezzo non è più il mio. […]

Diario di Irène Fayolle
22 ottobre 1992
Ieri sera ho sentito la voce di Gabriel in televisione. Parlava di “difendere una donna che mi ha lasciato”. Naturalmente non ha detto così, è la mia mente a distorcere le parole. Paul mi stava aiutando a preparare la cena in cucina, nella stanza accanto c’era la televisione accesa. Risentendo quel tono di voce legato ai miei ricordi più belli sono stata talmente sorpresa da far cadere la pentola d’acqua bollente che avevo in mano. Si è schiantata sul pavimento ustionandomi le caviglie. Ha fatto un fracasso del diavolo, Paul è andato nel panico, ha creduto che tremassi per le bruciature. Mi ha trascinato in salotto e mi ha fatto sedere sul divano davanti alla televisione, davanti a Gabriel. Lui era lì, dentro quel rettangolo che non guardo mai. Mentre Paul si dava da fare per applicarmi garze imbevute d’acqua sulla pelle martoriata ho visto alcune immagini di Gabriel in tribunale. Un giornalista ha riferito che durante la settimana aveva patrocinato a Marsiglia facendo assolvere tre dei cinque uomini accusati di complicità in un’evasione. Il processo si era concluso il giorno prima. Gabriel era a Marsiglia, vicinissimo a me, e io non lo sapevo. Se anche l’avessi saputo che avrei fatto, sarei andata a trovarlo? Per dirgli cosa? “Cinque anni fa sono scappata perché non ho voluto abbandonare la famiglia. Cinque anni fa ho avuto paura di lei e paura di me, ma sappia che non ho mai smesso di pensarla”? Julien è uscito da camera sua e ha detto al padre che dovevano portarmi al pronto soccorso. Mi sono rifiutata. Mentre marito e figlio si affannavano fino a trovare un tubetto di Biafine nell’armadietto della farmacia ho guardato Gabriel in toga nera muovere le sue belle mani parlando con i giornalisti, ho visto la passione che metteva nel difendere gli altri. Avrei voluto che uscisse dallo schermo, avrei voluto essere Mia Farrow nel film di Woody Allen La rosa purpurea del Cairo. E a me? Mi avrebbe difeso? Mi avrebbe trovato circostanze attenuanti per il giorno in cui l’avevo mollato? Quanto tempo mi aveva aspettato al volante della sua macchina? Quand’è che aveva deciso di ripartire? In che momento aveva capito che non sarei tornata? Le lacrime hanno cominciato a rigarmi le guance. Colavano mio malgrado. Paul ha spento la televisione. Sono crollata davanti allo schermo nero. Mio marito e mio figlio hanno pensato che fosse colpa del dolore. Il medico di famiglia, chiamato da loro, ha ispezionato le ustioni e detto che erano superficiali. La notte non ho dormito. Rivedendo Gabriel, risentendo il suono della sua voce, ho capito quanto mi sia mancato.